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Antonio Evangelista |
Il suo nuovo libro esplora una tematica estremamente attuale e complessa. Qual è stato il motore principale che l'ha spinta a scriverlo e come pensa che possa contribuire alla comprensione delle attuali guerre, del terrorismo e della sicurezza globale?
Il motore sono state la disinformazione e la rabbia, ma anche il senso di impotenza davanti a eventi che ho visto svolgersi in prima persona. Dopo anni passati in zone di crisi ho capito che il racconto ufficiale non basta: troppe verità vengono filtrate, silenziate, edulcorate o manipolate. Con questo libro ho voluto mettere sul tavolo non solo la memoria, ma anche le connessioni tra guerra, finanza e potere. Credo che il libro possa aiutare a capire che il terrorismo non nasce dal nulla: è spesso il prodotto di strategie geopolitiche e interessi economici più grandi.
Ha avuto un’esperienza diretta in luoghi critici come Beirut, il Kosovo, e la Bosnia. Come sono cambiati, secondo lei, i paradigmi della sicurezza e del terrorismo nel corso degli anni e quali sono le sfide che le forze di sicurezza devono affrontare oggi rispetto a quelle che lei incontrava sul campo?
Quando ero sul campo, negli anni dei Balcani o del Medio Oriente, il terrorismo era in gran parte “fisico”: esplosioni, attentati, gruppi armati. Oggi è anche digitale, con la propaganda online e la radicalizzazione che avviene attraverso un telefono. La sfida delle forze di sicurezza è doppia: anticipare gli attacchi fisici e interpretare i segnali nascosti nel mondo virtuale. Oggi serve una capacità di lettura globale, mentre una volta bastava presidiare il territorio.
La sua carriera l'ha portata a svolgere un ruolo fondamentale nell’individuare minacce terroristiche, come i tweet relativi agli attentati di Parigi e Ghedi. Qual è l'importanza delle intelligence aperte (OSINT) e come pensa che questa metodologia possa evolversi nel prossimo futuro?
L’intelligence aperta è stata spesso sottovalutata, ma i fatti mi hanno insegnato che può fare la differenza. Con l’OSINT, intercettai segnali legati all’attentato al Bataclan di Parigi e a quello – in preparazione e poi sventato – contro l’aeroporto di Ghedi, che i canali ufficiali non avevano colto. La sua forza è la velocità: un tweet può raccontare il futuro, prima delle procedure investigative. Domani diventerà ancora più centrale, con l’uso dell’intelligenza artificiale e del data mining. Ma servirà sempre l’occhio umano, quello capace di cogliere il senso dietro un dettaglio apparentemente banale.
Ha lavorato a stretto contatto con istituzioni internazionali come l’ONU e l'Unione Europea. Quali sono le difficoltà più grandi che ha incontrato nel coordinare gli sforzi di sicurezza tra diverse realtà politiche e culturali, e come queste sfide influiscono sull'efficacia delle operazioni antiterrorismo?
La difficoltà principale è sempre stata la politica: troppi interessi divergenti, troppe culture diverse e poca fiducia reciproca. Coordinare significava, spesso, tradurre non solo le lingue ma anche le agende politiche, due esempi: i terroristi italiani che riparavano in Francia ricevendo rifugio e assistenza oppure la ‘redenzione’ di al Jolani, terrorista ISIS, prima di al Qaeda, ora governatore della Siria con il bene placito statunitense e di tutti gli altri Paesi che lo hanno salutato con favore. Questo riduce l’efficacia delle missioni antiterrorismo, che sulla carta possono essere comuni ma nei fatti… subiscono l’influenza della politica. È come avere una squadra in campo in cui ognuno gioca per conto suo.
La sua esperienza con il terrorismo confessionale, in particolare legato all'ISIS, le ha permesso di analizzare fenomeni complessi come la radicalizzazione. Quali pensa siano gli elementi più critici che favoriscono questo processo e come le società occidentali possono affrontare meglio queste dinamiche?
Gli elementi più critici sono tre: esclusione sociale, identità fragile e propaganda efficace. L’ISIS ha saputo parlare ai giovani in cerca di appartenenza meglio di quanto abbiano fatto molte società europee. Per affrontare queste dinamiche servono inclusione, istruzione e soprattutto narrazioni alternative: non basta dire “non farlo”, bisogna offrire un “perché no” credibile e un “perché sì” ancora più forte. La forza di questi potenziali «soldati» non è nei capi quanto in quel patto che ogni mujahid ha stretto con il suo Dio, e questo è l’incomparabile vantaggio di cellule dormienti e lupi solitari. I califfi passano, Bin Laden, Al Baghdadi, Al Jolani, ecc. fa poca differenza… ma Dio resta. Sono le fantasie degli ultimi del mondo, in cerca di riscatto, gloria e vendetta per riscrivere in un «click» la loro storia e divenire eroi per sempre.
Guardando al futuro, qual è la sua previsione riguardo l’evoluzione della geopolitica globale e quali misure pensa siano fondamentali per garantire la sicurezza, sia a livello internazionale che nazionale, nei prossimi decenni?
La geopolitica si muoverà sempre più attorno all’energia e alle risorse, proprio come oggi accade per il gas o domani per l’acqua. Nei prossimi decenni la sicurezza non sarà garantita da più armi, ma da più accordi e meno ipocrisie. Serve coraggio politico per riconoscere che il nemico non è solo esterno, ma anche dentro i nostri sistemi economici. E anche in questo caso abbiamo raggiunto un punto di non ritorno dopo l’attentato terroristico al gasdotto Nord Stream, una struttura strategica energetica fondamentale per tutta l’Europa. Un attacco dapprima annunciato, poi minacciato dagli statunitensi e poi consumato, verosimilmente, secondo le ultime indagini tedesche, da ucraini… ma non solo loro. Così pare emergere da uno scoop secondo il quale a monte esiste un progetto britannico, cd. ALCHEMY per trascinare l’Ucraina in una guerra contro la Russia, fino all’ultimo ucraino. In questo senso cfr. l’articolo pubblicato da Grayzone a firma Kit Klarenberg1.
1 https://thegrayzone.com/2024/11/20/leaked-files-uk-military-plot-grayzone/
Parliamo adesso in modo più specifico di "WAR Street – L’inganno demokratico".
“WAR Street” sembra essere un romanzo che va oltre la finzione, mescolando narrativa e analisi geopolitica. Cosa l'ha spinta a utilizzare il formato del romanzo per raccontare queste verità, anziché scrivere un saggio storico o un’analisi? Che tipo di impatto spera possa avere sui lettori?
Perché la narrativa arriva dove i saggi non arrivano. Un saggio parla alla testa, un romanzo parla anche allo stomaco e al cuore. Ho scelto la finzione come strumento per raccontare verità scomode: così più lettori entrano nella storia, la vivono e la sentono e, non è “solo teoria”.
La figura centrale di Jacob Drake è un personaggio dalle molteplici sfaccettature: un banchiere che si sente l’ultimo pirata dell’impero britannico, ma anche una persona che deve fare i conti con il suo passato e con il tempo che passa. Cosa rappresenta Jacob per lei, sia come personaggio che come simbolo della finanza contemporanea?
Jacob è il banchiere-pirata, l’uomo che naviga tra le regole solo per piegarle. Ma è anche la pazzia di chi si crede onnipotente, quando poi si scopre che si tratta di eredi di una genia di assassini che hanno fatto l’Inghilterra depredando, decapitando, ingannando… per questo nel libro faccio questo parallelo tra i pirati e l’ISIS. Non c’era nulla di romantico nelle gesta dei corsari: era sangue, morte e arroganza imperiale, ieri come oggi. Si tratta della finanza globale: potente e spregiudicata e sorda alle istanze della gente comune.
Il libro affronta tematiche come l’inganno democratico e la manipolazione della storia da parte dei poteri economici. Quali sono gli eventi storici che ritiene siano stati distorti o volutamente nascosti dalla narrazione ufficiale e come ha scelto di affrontarli nel libro?
Molti eventi: dalle guerre nei Balcani agli attentati in Medio Oriente, fino alle rivoluzioni “democratiche” pilotate dall’Occidente. Li ho affrontati mostrando i fili nascosti: non ho cambiato i fatti, ma ho dato voce a ciò che era stato ‘silenziato’, cioè chi ci ha guadagnato e chi ha perso davvero.
Gli eventi più indegni sono quelli che hanno riguardato il cartello di industriali, politici e banchieri che sostenevano e finanziavano in vario modo Hitler durante il secondo conflitto mondiale, anche dopo che gli USA erano entrati in guerra, tra questi due per tutti Henry Ford e Prescott Bush, nonno e padre dei due presidenti USA, in compagnia di tanti altri democratici ‘occidentali’. Una distopia che richiama, secondo me, quella di una Europa che finanzia l’Ucraina, non solo lei per la verità, che sembra essere la responsabile del sabotaggio del gasdotto Nord Stream. Dove era in questo caso l’art. 5 dell’alleanza NATO?
Un tema ricorrente in “WAR Street” è il potere della finanza come motore di guerra. In che modo pensa che l'attuale sistema economico globale continui a perpetuare conflitti e instabilità? E come le “guerre economiche” si intrecciano con le guerre sul campo di battaglia?
Ogni guerra è un investimento. Armi, ricostruzioni, mercati: il conflitto è un business che ingrassa banche e fondi. Oggi non è diverso: le “guerre economiche” – sanzioni, speculazioni, controllo delle materie prime – sono spesso il preludio o l’estensione delle guerre tradizionali. La finanza prepara il terreno, l’esercito lo calpesta. Le guerre indebitano le Nazioni coinvolte e le fanno sprofondare nel loro debito e quindi riducendole sotto il potere di chi ha finanziato le guerre… l’esempio dell’Ucraina si commenta da solo. Se guardiamo al passato non è vero, come qualcuno sostiene, che Hitler aveva risollevato l’economia tedesca perché tutto il denaro proveniva prevalentemente dall’America e dalla City di Londra nella persona di Montague Collet Norman, il governatore della Banca di Inghilterra a sua volta collegato ai Bush e ai Walker. Montague non fece mai mistero di essere uno dei più convinti, e avidi, supporter di Hitler: famoso per aver dichiarato “Noi dobbiamo prestare alla Germania nazista 90 milioni di marchi… potrebbero non essere mai restituiti ma sarebbero sicuramente minor danno rispetto alla caduta del Nazismo".
Il suo libro fa un’esplicita critica alla NATO e all’imperialismo occidentale, in particolare riguardo al ruolo ambiguo degli Stati Uniti nelle guerre contemporanee. Può dirci chiaramente il suo punto di vista riguardo l’influenza occidentale sulle crisi internazionali?
Il punto è che l’Occidente si presenta come garante di democrazia, ma spesso agisce come impero che difende i propri interessi. La NATO non è più un’alleanza difensiva, è diventata un braccio armato della geopolitica USA-UK. Questo non significa giustificare altri attori autoritari, ma smascherare la doppia morale: esportiamo libertà solo se coincide con i nostri affari.
Il romanzo è ricco di riferimenti a eventi storici documentati e si muove tra diversi piani temporali. Come ha gestito il delicato equilibrio tra fiction e documentazione storica? E c’è un messaggio particolare che spera possa emergere chiaramente per chi non ha una conoscenza approfondita degli eventi trattati?
È stato il lavoro più delicato: bilanciare documenti reali con una trama che potesse catturare. Il messaggio che spero emerga è chiaro: la storia che ci raccontano non è mai neutra, e chi controlla il racconto controlla il futuro.
Sono stato un testimone e i testimoni hanno un dovere: raccontare. Ho visto guerre, menzogne, manipolazioni, e ho visto anche persone normali pagare il prezzo più alto per decisioni prese a migliaia di chilometri di distanza. Con i miei libri cerco di dare voce a ciò che spesso viene messo a tacere: il lato oscuro del potere.
Non scrivo per consolare, scrivo per disturbare. Perché la verità non è mai comoda, ma è l’unica strada per restare liberi, se possibile.
©DeniseInguanta
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Per maggiori informazioni di seguito alcuni articoli riguardanti Antonio Evangelista e i suoi libri.
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