lunedì 11 gennaio 2016

"SCHERZI DEL TEMPO" DI ANDREA GIORDANO

Riportiamo il racconto "Scherzi del tempo" di Andrea Giordano.

Luccicava da lontano il cancello di quel posto come se non fosse passato neanche un giorno da allora, forse luccicava ancora solo per me. Per i ricordi miei.
Era buio, mi ritrovai dove la mia auto aveva deciso di fermarsi. Scesi dall’auto con i fari ancora accesi, provai diverse chiavi. Solo l’ultima trovò rifugio dentro quel massiccio lucchetto inospitale.
Il cancello era duro a spostarsi ma alla fine dovette cedere (Dio mio non mi riconosci? Sono io...)
Montai sull’auto ed entrai nel cortile.
Non era cambiato niente, assolutamente niente, quel pezzo di campagna non conosceva deterioramento di alcun genere; la casa con i suoi due piani sopravviveva altrettanto egregiamente.
Quelle mura giovani di spirito e cemento si erano forse rigenerate da sé?
Ai miei occhi quei muri semplicemente non si piegavano al passare degli anni, conservavano quello che io stesso avevo perso. La certezza di essere ancora ricordati. Il resto non contava, la pioggia , il vento, il tempo, l’abbandono avevano perso le proprie battaglie ma continuavano inesorabili la guerra. Giravo attorno al caseggiato come un ladro, tentavo di rubare voci, odori, guati di cani morti e sepolti, giochi ancora da terminare che si esaurivano là nell'oscurità di quel posto senza echi.
Il sussurrare costante del motore ancora acceso mi infastidiva, corsi a spegnerlo insieme alle luci. Riuscii solo ad ottenere un buio ed un silenzio spettrali. Ma questo dannato silenzio persisteva senza fretta ne paura di tradirsi.
L’entrata era a pianterreno, l’avevo avanti, non restava che entrare e ricordare. Mi colse l’assurdo desiderio di correre e saltare sul pozzo coperto da uno sportello metallico, era un pensiero gioioso,
uno sfogo che avrei voluto prendermi da bambino senza adulti tra i piedi; un richiamo istintivo mi spinse alla corsa... ritrovarmi sul pozzo fu un tutt'uno.
Dio mio che sciocchezza ! Quali emozioni speravo di ricavarne?
L’avere raggiunto quell'altezza che credevo vertiginosa, lì impalato, raggiante e baldanzoso come una trave collocata fuori posto mi fece sentire come un perfetto idiota. Non comprendevo perché
mai da bambino avessi talmente desiderato di farlo. Attribuivo eccessivo fascino a quello che mi era vietato eseguire come se saltando su un pozzo avessi scoperto i comandi dell’intera orbite celeste da virare secondo i gusti personali.
Saltai giù deluso, non sopportavo neanche il primo gradino di quella scalata verso tali inconsistenti desideri. Qualcosa di nuovo sopra il pozzo come il tetto della macchina sporco, un calabrone che schizzasse via spaventato, la rottura del coperchio col mio precipitare diretto verso l’annegamento avrebbe elemosinato almeno qualcosa alla curiosità di questo mio muovermi, ma sul pozzo non c’era niente, non poteva esserci niente.
Il pianterreno del caseggiato aveva un portone chiaro, il tutto consisteva in un enorme stanzone utilizzato come un ripostiglio, sporco albergo di attrezzi vari. Quando accesi la luce i neon
sprizzarono scintille ad intermittenza esitando bagliori ovunque, senza neanche coordinarsi tra loro come presi alla sprovvista durante il sonno, poi mi fissarono increduli.
Una colonna portante nel mezzo di tutto, botti di vino, biciclette, arnesi di lavoro da campagna, bottiglie in gran quantità, sedie sfondate, armadi rosicchiati, tutto rigorosamente posto ai margini
dello stanzone, tutto studiato per dare maggiore risalto alla colonna centrale.
Mossi i primi passi tra quei resti. Toccai quasi tutto con indifferenza, forse cercavo qualcosa di preciso, un mattone, una chiave, un giocattolo probabilmente? Qualsiasi cosa potesse detenere quel potere del passato che andavo inconsciamente raccattando lì dentro.
Mi accadeva talvolta di fissare un oggetto particolare per svariati minuti immobile come cemento ne trovavo l’entrata come un tuffo nell'acqua, finché il particolare prescelto si ingigantiva con
l’energia che io stesso vi infondevo ed il tutto diveniva vago e sfumato. Ed era lì l’unico mio incontro con una felicità purissima ed incontaminata, un oppio sconvolgente di pochi instanti, tra i
contorni di un semplice ornamento, una sveglia, una vecchia radio, una foto.
Ecco cosa cercavo lì dentro senza tanta convinzione tra ruggine e calcinacci polverosi, qualsiasi cosa che casualmente si fosse ritrovata tra le mie mani venti anni prima o ancor di più.
Ma spesso non è così facile trovare dei rifugi.
Non trovai meglio da fare che sedermi e fumare guardandomi intorno. Cominciai ad infastidirmi come in presenza di uno specchio indesiderato ed il grattare ad intervalli precisi di un topo nascosto dietro una botte mi innervosiva maggiormente. Era il silenzio che faceva da contorno a quel grattare che sembrava irreale, quasi una scelta ponderata tra l’ambiente e l’animale per ricavarne dei stanchi turni prestabiliti. Che motivo ha un topo di grattare in questo modo insopportabile?
Ma era il mio unico compagno in quella solitudine e fui incline a sopportarlo. La tristezza mi assalì come avevo ampiamente previsto. Il topo smise di grattare , ma fui io a sentirmi scalfito dentro come raramente accade. Una serie di immagini mi si proiettavano davanti come al vita di qualcun'altro.
Non mi sentivo degno dei miei ricordi, non mi sembrò possibile in quell'attimo ottenere un uomo stanco come me da un passato come il mio.
Quel pezzo di terra era il confine che manteneva il bambino ancora vivo, dopodiché c’ero sempre strato io come mi vedevo allo specchio da anni ormai.
E’ una speranza insensata quella di scovare in un tale bazar l’oggetto dei ricordi, il telecomando della sezione archivi di una vita; niente droga della mente oggi….solo pesanti cucchiaioni di realtà.
Che si mangia oggi? Il solito… scatolette di quotidiano.
L’oggetto dei miei desideri non esiste o se c’è si nasconde pigramente in altre case, per altre stanze o in altre pattumiere.
Pensai ad alta voce che in realtà non desideravo nulla.
Non volevo forse perché avevo già tutto o probabilmente perché non avevo mai avuto niente quindi perché mai continuare a desiderare? Era solo un gioco qualunque cosa cercassi, il ritenersi ancora capaci di ottenere cullandosi con false intenzioni. I miei entusiasmi sono calcolati come un esercizio matematico, come una stanca equazione senza incognita. E’ doveroso per chiunque emozionarsi saltuariamente per onorare la nostra condizione di essere vivente, se non altro per far fede alla scienza che così ci descrive e così ci vuole. Chi sono io per deludere la scienza umana?
Ma ad essere franco con voi il guaio non è l’ignoranza su cosa desideri, ma il fatto che io non desidero affatto.
Semplicemente ho smesso.
Udii improvvisamente qualcuno ridere dall'interno della stessa stanza.
L’adrenalina scaraventò ai miei sensi intorpiditi energie dimenticate da tempo; fu così che anche la vista ebbe la sua parte.
Erano lì.
La sezione archivi si mise in moto lì davanti ai miei occhi senza preamboli, senza oziosi burocrati da corrompere, ma con un’esecuzione sconvolgente, gratuita, perfetta. Un oggetto dall'intensità mastodontica rivelava la sua presenza tra quell'esercito di cianfrusaglie, con la forza di un proiettore cinematografico riproponeva le sue registrazioni.
Non so come dirlo ma erano lì.
Vent'anni di meno, le chiome lucide, indaffarati attorno ad un tavolo ridevano a pieni polmoni come se non fossero più capaci di fermarsi e qualcuno affermava che i Beatles li avrebbero senza dubbio querelati se quella canzone fosse uscita da quelle mura così come si sforzavano di cantarla. Mia madre tentava invano di mantenere un atteggiamento di risentimento a quell'uscita, ma rideva anche lei distribuendo piatti di spaghetti che debordavano penzolando. Un amico di mio padre li roteava con eleganza riponendoli lì dove dovevano stare.
Mio padre era forse il più felice dell’intera comitiva, rideva con tutto il corpo come sua abitudine,
solo allora vidi quanto chiaramente il mio modo di ridere ricordasse il suo. Un vociare acuto mi investì poi alle tempie. Due miei amici di infanzia sedevano all'indiana intorno ad un monopoli ferito e rappezzato con notevoli quantità di nastro adesivo; messi insieme non raggiungevano neanche i venti anni.
Si contendevano il possesso di alcune banconote abbandonate lì da un terzo giocatore che  improvvisamente aveva deciso di abbandonare il gioco; dicevano che c’era da aspettarselo non
sapendo questi sopportare la sconfitta quasi perenne. La madre li richiamava all'ordine col suo solito modo sfrontato e sincero fino alla brutalità, le sue provocazioni erano memorabili, forse fu
proprio a quei tempi che imparai a disprezzarla.
Notai con stupore la diversa disposizione delle cose, l’assenza di queste o l’aggiunta di altre.
Lievitavano nel vuoto come giganteschi insetti lenti e malfermi disponendosi caoticamente secondo l’ordine del tempo e della comparsa… allora si gira signori ognuno prenda il suo posto, non voglio iniziative personali, gradirei solamente che vi atteneste al copione grazie.
Solo alcuni oggetti si prodigavano in questa danza, altri sceglievano semplicemente di rimanere immobili, ma non credo che lo facessero arbitrariamente, vi era un copione anche per loro.
Osservavo il girovagare degli elementi senza inquietudine, talvolta mi sfioravano addirittura, ma io ero troppo immerso nella mia nuova parte per preoccuparmi di come recitassero gli altri.
Ed ecco che la mia esistenza diveniva adesso una pura forma d’arte come avevo sempre sognato, la parola si tramutava in battuta, l’oggetto in scenografia, il discorso intero in sceneggiatura. Fu l’unico momento della mia vita in cui il mio ego non poté desiderare di più. La vita, l’arte non v’era più distinzione.
Non avevo battute ma le sapevo a memoria o le avrei intuite al momento e ne studiavo l’impostazione mentalmente come su di un palco. Pensavo che non molto tempo dopo si sarebbero voltati ed io avrei potuto coglierli di sorpresa senza apprensione, senza timore, ero venuto per loro anche se io stesso non potevo saperlo. Essi quindi ascolteranno inquieti e curiosi del loro futuro, del mio presente.
Fu forse attenendosi al copione che finalmente si accorsero di me. Quel lento pandemonio d’oggetti alati non ebbe più motivo di emigrare. Conclusero il loro viaggio con un secco schianto collettivo sul pavimento.
Ero fermo, accanto la porta chiusa incapace di completare una tentata fuga, rasentavo la totale immobilità, forse anch'io seguivo fedelmente il copione non saprei dirlo, ma sicuramente fu così
dato che guardai loro negli occhi ricambiando il loro sguardo ossessivo così come mai avrei fatto nella realtà.
Essi erano sereni puntandomi occhi a bersaglio fisso, occhi che non avrebbero più potuto muoversi perché qualcuno all'interno ne aveva spento la regolazione. La neutralità dei volti era artificiosa e
preoccupante … mai mi era capitato di vedere un insieme immobile di corpi. Ma io volli vedere il loro sentimento, quello che occorreva scoprire non era in superficie, bisognava addentrarsi modellare le loro espressioni abbandonandosi alla nostalgia, far parte di loro e del loro tempo cosicché mi riconoscessero.
Gridai di essere io, ma non si mossero.
Ritrovai le stesse identiche statue. Il loro sguardo sembrò forse anche più penetrante, quello di mio padre era incolore, entrai nei suoi pensieri ed essi correvano prelevando cose e persone, ricordi e
certezze; v’era spazio per tutti ma quando entrai io non trovai posto. Ero un estraneo.
Successe allora qualcosa di straordinario, non pensavo potesse ancora succedere…piansi veramente.
Piansi di me e della mia condizione, piansi perché non sapevo dove andare o cosa fare, non sapevo quanto poco avrei vissuto o se mi rimanessero ancora amici, piansi perché vivevo senza passioni e
senza obiettivi realizzabili, piansi perché vigliacco com'ero tentavo di rendere mio padre colpevole.
Infine piansi perché piangevo.
Non vi fu più luce.
Non vedevo più ed ebbi paura, la stanza era oscura, non vi erano rumori alcuni, avevo perso il senso dell’orientamento e non sapevo da che lato della stanza fossi, pensai a qualcosa di ingiusto, di
crudele in tutto quell'accadere.
Non erano forse loro i soli che avrebbero dovuto volermi bene?
Eh già perché è questo che io cerco… chi mi voglia bene in un modo del tutto particolare, talmente complesso da non riuscire neanche a descriverlo dato che spesso ritengo l’affetto materno o paterno dovuto e pertanto non classificabile tra le conquiste di qualsivoglia essere umano. Essi mi avrebbero voluto bene al di là di qualsiasi avvenimento senza capacità di giudizio, con l’occhio del genitore, quasi con spirito di sopportazione ben celato ma visibile se solo acconsentivo a vederlo.
Ma adesso sarebbero riusciti a farlo?
Allora desiderai informarli sulla mia condizione, dissi che non mi ero conquistato un bel niente e che non vi erano possibilità di soddisfare le loro aspirazioni su di me, che ero cresciuto male e che
pertanto ero un uomo colmo di invidia ed astio verso chiunque. Ma queste parole le dissi prive di odio o di rancore, anzi sorridevo sprezzante come chi va al patibolo senza attribuire gran significato
alla cosa ed osserva disinteressato la gente che viene a guardare qualcuno che muore. Perché avrei dovuto odiare per questo? Ero nato preda ma nessuno l’aveva deciso.
Poi nel buio vidi volteggiare una sigaretta, un’elegante zanzara condannata al rogo, sentii la voce di mio padre ed era tutto quello che volevo sentire.
Disse che ero grande ormai quanti anni avevo?
Risposi di averne trentatré. Ero fidanzato sposato? No papà, sono solo.
Rimase in silenzio a lungo, poi mi chiese cosa intendessi fare nella mia vita ed io non capivo come in una simile situazione potesse essere così naturale il padre mio, come se non avessi percorso venti
anni addietro per trovarlo lì al buio mentre qualcuno si dannava per riparare questo enorme guasto del tempo.
Dissi che non trovavo risorse e che mi sarei presto abbandonato a me stesso ma egli non parve impressionato dalla mia amarezza, disse solo che ero grande ormai e che sarei vissuto come tanti
altri.
Cercai allora di metterlo al corrente di ciò che evidentemente non si avvedeva… ero un miserabile fallito.
Rideva. Ma aveva capito?
Perché quando io tentavo di scusarmi della mia stessa esistenza, dell’insostenibile delusione che egli aveva da nutrire nei confronti di questo figlio inesistente, al proclamare di tutto ciò egli rideva?
Avrei voluto dirgli di dimenticare il futuro di tenersi la gioia ed i vantaggi di un presente fatto di un bambino corretto e comparabile a tutti gli altri. Ma che nobiltà potevano contenere tali parole di
fronte a lui che apertamente rideva?
Poi gradualmente smise.
Ognuno di noi rifletteva in silenzio, si ammirava con compiacimento quanto affascinante possa essere una sigaretta accesa al buio.
Immaginavo il suo viso sereno ed affabile come sempre trovare riparo nell'oscurità. Non ho mai saputo se eravamo soli suppongo di si. Sentivo il suo respiro così come non ne percepivo altri
all'infuori del mio.
Poi chiese qualcosa di inaspettato.
- Vuoi vederlo?
Sapevo che a lui avrebbe fatto piacere, ma a me avrebbe giovato? Lo desideravo anch'io? Pensai di sì, anche se non avevo l’aspetto che avrei voluto mostrare.
- Si …va bene.
Si alzò in piedi, gettò la sigaretta per terra e poi la spense.
- Sai che non posso più aiutarti, se potessi lo farei.
- Lo so pà , non preoccuparti.
Grazie all'oscurità ci fu permesso di guardarci negli occhi a lungo.
Ci abbracciammo.
- In questi vent'anni anni vedrò di darti dei buoni consigli, è tutto quello che posso fare.
Lo ringraziai senza dirgli che quei consigli li conoscevo già, ma d’altro canto aveva ragione lui.
Cosa poteva farci?
Credo che ci voltammo indietro allo stesso tempo , ma destinati a tempi diversi.
Ero ancora triste, lui avrebbe rivisto me ma io non avrei rivisto lui.
Sono scherzi del tempo.
Filtrava un lieve bagliore adesso.
La sorgente era l’unica finestrella sul lato destro dello stanzone.
Accesi e fumai di gusto.
Sapevo che non avevamo ancora terminato, ma eravamo agli sgoccioli ormai.
Il fumo mi inebriava come quando la mia carriera di fumatore era ancora agli inizi, dopo tanti anni tirare boccate da una sigaretta riacquistava finalmente un senso.
Avevo suole di cuoio ed i miei passi risuonavano piacevolmente sulla polvere croccante come pane, era un suono che mi piaceva mi faceva sentire più importante, più presente.
Lui indossava una maglietta chiara ed un paio di pantaloncini corti a scacchi.
Sorrisi quando mi accorsi che calzava un paio di sandali aperti; sapevo quanto li odiasse perché gli impedivano di giocare a suo agio, sapevo anche che li portava solo perché era ancora troppo
giovane per imporre i propri gusti alla madre.
Ne sopportava la vanità, la fetente ed ordinata coerenza che emanavano col resto degli altri abiti. Si accontentava di attendere con pazienza che si spappolassero da soli, non tanto per l’eccessivo uso ma soprattutto per loro stessa ammissione. Un suicidio ponderato e valoroso per riscattare la pesante umiliazione che gli infliggevano.
Era tutto sommato un moderato, ero ancora d’accordo con lui, ma io i sandali li avrei bruciati e passato per le armi i produttori.
I capelli erano corti, un po’ insignificanti sopra quella massiccia montatura d’occhiali di plastica .
Ma gli occhi erano formidabili.
La pupilla scurissima, spalancata come un diaframma fotografico per la poca luce, ed il bianco sembrava latte appena munto. Come se la luna ed il cielo notturno avessero deciso di scambiarsi i
colori.
Era stupito di vedermi, credo che mi riconobbe nello stesso attimo in cui mi vide. Capii che non mi avrebbe mai parlato, non per primo almeno.
Ne studiavo la fresca gioventù che possedeva inconsciamente. Nessuno dovrebbe mai vedere quello che ha perso quando lo rivorrebbe indietro. Ero io, ma non era uno specchio.
Domandai quanti anni avesse. Rispose di averne nove, anzi no nove e mezzo.
- Fai la quarta? – chiesi.
- La quinta.
Si già era vero, faceva una classe in più perché era nato a Dicembre, ora ricordo.
Aveva una voce femminile, un giorno si sarebbe alzato dal letto con un'altra voce, come per magia
- Cosa stavi facendo? - domandai.
Mi guardò come se fossi stato un imbecille. Come non lo capivo? Era evidente!
- Sto giocando!
Aveva una “strummula” ed un filo per lanciarla . Non mi resi conto che stava giocando proprio perché mi sembrava impossibile che un bambino di soli dieci anni giocasse ad un gioco così antico.
Dato che ero stato così bravo da guadagnarmi il titolo d’imbecille già dalla prima domanda pensai che non ci fosse nulla di male a continuare ormai a giocare la mia parte.
- Come si gioca ? - chiesi come un idiota.
Mi sentivo come un bambino gigante che si rifiuta di accattare la propria condizione di uomo fatto e continua a turlupinare se stesso.
Lui rispose paziente e con il dovuto rispetto che un bambino ha verso un adulto appena uscito dalle caverne.
- Si gira il filo attorno e poi si lancia!
Mi diede anche una dimostrazione ed io finsi di interessarmi ad un cono di legno che girava intorno se stesso per trenta secondi di fila.
In realtà osservavo lui che aveva così stupendamente tramutato l’attesa di un oggetto che smettesse di roteare in un gioco. La stessa attesa che invece adesso mi faceva innervosire quando in macchina
aspettavo il verde del semaforo. La stessa attesa che in me invece provocava solo l’ansia di sapere cosa sarebbe successo dopo, a prescindere da qualunque cosa aspettassi.
- Hai la macchina? - chiese improvvisamente
Ne rimasi turbato. Mi aveva letto nel pensiero o che cosa?
Risposi di si sorridendo. Quando domandò se fosse difficile guidare non potei trattenermi dal ridere.
- No - dichiarai - se tua madre non è seduta nel sedile accanto al tuo!
Rise anch’egli, di cuore ,suppongo sapesse benissimo cosa intendevo.
Smisi di ridere e guardai per terra imbarazzato.
Non avevo più niente da dirgli. Niente di significativo comunque.
Continuava a guardarmi forse sorpreso da quei strani cambiamenti di umore, ma forse capiva, forse era già capitato anche a lui. Si avvicinò senza guardarmi più.
- Dove vai adesso? - chiese.
Solo le donne ed i bambini sanno porre domande così chiaramente con viso inalterato, senza prologhi o trucchi meschini per sondare la tua voglia di rispondere.
Soddisfare una curiosità per un bambino è qualcosa di diretto come un pugno.
Mi piaceva quella domanda , credevo che non dovesse interessarlo niente di me sino ad un secondo prima.
- Non lo so. A casa credo. E’ molto tardi.
Stavolta mi fissò negli occhi.
- Posso venire? - supplicò.
Grazie mio giovane amico. Non saprò mai ringraziarti abbastanza per quello che hai fatto quella notte mille anni fa. Non me lo aveva mai detto nessuno. Adesso potevo andare via.
Allungai la mano sui suoi capelli. Le mie dita penetrarono solo i suoi contorni inconsistenti.
- Continua a giocare – risposi a bassa voce- qui nessuno ti fara’ del male. Rimani qui.
Chiusi gli occhi.
Quando li riaprii non vidi nessuno.
Ma io continuai a guardare davanti a me per molto altro tempo. Forse un’ora.
Dolcemente mi sentii cullato da una musica senza sorgente.
Per un’ora…una sola ora nella mia vita reclinai il capo e non pensai più.
Un po’ di luce in più, qualche eco ancora.
Il mio respiro.
Adesso li sentivo, le grida del gioco, l’abbaiare dei cani, vecchie canzoni.
C’erano tutti i fantasmi che avevo perso gioirmi intorno.
Mi voltai per uscire, lasciando che gli oggetti riprendessero il loro vecchio posto senza essere osservati. Aspettai che avessero finito di tagliare l’aria.
Poi uscii...
Fuori dalla mia porta il mondo albeggiava.



Andrea Giordano


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