C’è un filo che attraversa trent’anni di conflitti, dalla Bosnia degli anni Novanta all’Iraq, fino alle tensioni di oggi ai confini orientali dell’Europa. Non è un filo spinato, anche se spesso lo ricorda. È il filo invisibile dell’informazione manipolata, dell’immagine selezionata, del dettaglio trasformato in verità assoluta.
Nel 1992 una fotografia fece il giro del mondo: un uomo scheletrico, apparentemente rinchiuso dietro un filo spinato. I Balcani vennero immediatamente riletti attraverso la lente dell’Olocausto. L’intervento militare divenne una necessità morale. Solo anni dopo si scoprì che quel filo spinato non circondava i prigionieri, ma i giornalisti che erano nel recinto e fecero avvicinare i profughi al filo spinato per scattare le foto. L’inquadratura aveva ribaltato la realtà. Ma nessuna copertina tornò indietro. Nessuna narrazione venne davvero corretta.
Il danno era fatto.
![]() |
| Profughi Bosnia |
E così la foto dei prigionieri nel campo di Trnopolje divenne la ‘pistola fumante’ che provava ogni oltre dubbio l’esistenza dei campi di concentramento ‘nazisti’ dei serbi.
Cambiano i contesti, le guerre, i nemici. Non cambia il meccanismo.
L’immagine selezionata, il dettaglio isolato, l’interpretazione suggerita diventano la cornice entro cui il pubblico è chiamato a leggere la realtà. Non importa se, col tempo, quella cornice si rivelerà fragile o falsa: l’effetto politico è già stato prodotto.
La fialetta di Colin Powell: l’oggetto che giustificò una guerra
Nel febbraio 2003, davanti al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il segretario di Stato americano Colin Powell sollevò una piccola fialetta. Disse che rappresentava l’antrace, simbolo delle armi di distruzione di massa che Saddam Hussein aveva nascosto.
Non servivano prove complesse. Bastava l’oggetto.
Quella fialetta — minuscola, astratta, priva di contenuto verificabile — divenne il fulcro emotivo e simbolico di una guerra che avrebbe devastato l’Iraq, destabilizzato il Medio Oriente e aperto la strada alla nascita dell’ISIS.
Anni dopo, Powell stesso ammise che quelle informazioni erano false. Le armi di distruzione di massa non esistevano. Ma come nel caso della Bosnia, la smentita arrivò quando la storia era già stata scritta.
La fialetta funzionò come il filo spinato di Trnopolje: un dettaglio visivo elevato a verità assoluta.
Il presente: tre ombre diventano una minaccia
Oggi il copione si ripete in forma aggiornata. Il quotidiano la Repubblica rilancia la notizia di uno sconfinamento in Estonia da parte di tre presunti “sovietici”. La parola non è casuale: “sovietici” evoca immediatamente un immaginario preciso, un’eredità minacciosa, un nemico storico.
A supporto della notizia, una fotografia.
Nell’immagine si vedono tre sagome scure, lontane, indistinte. Non è possibile stabilire: nazionalità, sesso, età, funzione, eventuale appartenenza militare.
Non si distinguono volti, uniformi, insegne. Potrebbero essere chiunque. Potrebbero essere nessuno. Sembrano, letteralmente, tre fantasmi.
Eppure, da quelle ombre nasce una narrazione: provocazione russa, tensione ai confini NATO, escalation possibile.
Ancora una volta, l’immagine non dimostra: suggerisce.
Il filo rosso: dall’oggetto alla percezione
Bosnia 1992: un filo spinato in primo piano.
ONU 2003: una fialetta agitata davanti alle telecamere.
Estonia oggi: tre ombre indistinguibili.
Tre epoche diverse, lo stesso schema comunicativo.
Non è necessario mentire apertamente. È sufficiente:
•scegliere cosa mostrare;
•omettere ciò che chiarirebbe;
•caricare il frame di parole chiave emotive;
•lasciare che il pubblico completi il racconto.
La verità, se arriverà, arriverà dopo. E non farà notizia.
Informazione o preparazione psicologica?
In un contesto di guerra ibrida — latu sensu — l’informazione non è più solo cronaca. Diventa preparazione psicologica dell’opinione pubblica. Serve a rendere accettabili decisioni già prese, a normalizzare l’idea di conflitto, a costruire un clima di inevitabilità.
Come negli anni Novanta, come nel 2003, anche oggi il rischio non è solo quello di essere disinformati, ma di abituarsi a non chiedere prove.
Perché quando bastano una foto ambigua o un oggetto simbolico a giustificare scelte irreversibili, il problema non è l’immagine. È il silenzio critico che la circonda.
Conclusione
La fotografia che “prese in giro il mondo” nel 1992 non è un errore del passato. È un avvertimento rimasto inascoltato.
Oggi, tra ombre ai confini, narrazioni accelerate e simboli al posto dei fatti, la domanda resta la stessa di allora: stiamo guardando la realtà, o solo l’inquadratura che qualcuno ha scelto per noi?
Questo è il punto che i media evitano accuratamente di affrontare: nelle guerre contemporanee l’informazione non è più un osservatore, ma un attore. Non si limita a raccontare il conflitto, lo prepara. Costruisce il clima emotivo, normalizza la tensione, rende accettabile l’idea di uno scontro prima ancora che i fatti siano accertati.
Non serve più mentire apertamente. Basta scegliere l’inquadratura giusta, il termine giusto, il momento giusto. Basta omettere il contesto. Basta rinunciare alla verifica in nome della velocità, dell’impatto, dell’allineamento narrativo.
Il risultato è sempre lo stesso: l’opinione pubblica viene chiamata a credere prima di capire, a temere prima di sapere, a schierarsi prima dei fatti. Quando le smentite arrivano — se arrivano — non fanno notizia. Non aprono telegiornali. Non cambiano politiche.
Dalla Bosnia all’Iraq, fino alle tensioni odierne, il copione non è cambiato. Cambiano i nemici, cambiano i teatri, cambiano le tecnologie. Ma resta intatto il ruolo di un’informazione che troppo spesso abdica al proprio dovere critico per diventare cinghia di trasmissione del potere, dell’alta finanza.
La fotografia che “prese in giro il mondo” nel 1992 non è un errore del passato. È un precedente. Un avvertimento ignorato. E finché i media continueranno a confondere il racconto con la prova, l’immagine con la verità, il titolo con il fatto, le guerre continueranno a essere combattute prima nelle redazioni e poi sul terreno.
Quando la guerra comincia prima delle bombe. War Street e l’inganno dell’informazione
Nel mio ultimo romanzo "War Street – L’inganno demokratico", ho ‘romanzato’ il ruolo di Wall Street nel preparare, fomentare e sfruttare le guerre per trarne il massimo profitto a dispetto di tutto e tutti. Non scrivo di fronti, armi e trincee ma presento ciò che viene prima. Molto prima. E all’informazione sta il compito di rendere la guerra possibile in quanto resa accettabile.
Il romanzo si muove lungo trent’anni di conflitti, ma il vero campo di battaglia è un altro: quello della finanza che prepara e orienta l’informazione e la percezione della narrazione pubblica. E qui War Street rende visibile ciò che normalmente resta dietro le quinte: inganni, trucchi, arroganza imperiale.
È lo stesso schema che il lettore scopre guardando la fotografia del 1992 in Bosnia: l’uomo scheletrico dietro il filo spinato, diventato icona di campi di concentramento che, nella forma suggerita dall’immagine, non esistevano. Un’inquadratura parziale trasformata in verità assoluta. Un’intera guerra riletta attraverso un simbolo emotivo.
Un oggetto insignificante, come la famosa fialetta agitata da Colin Powell alle Nazioni Unite, ha giustificato una guerra devastante. Anche lì, l’informazione non verificò: amplificò. Non dubitò: legittimò.
Lo stesso accade oggi, quando tre sagome indistinte in una fotografia diventano “sovietici”, “minaccia”, “sconfinamento”. Ombre senza volto trasformate in prova geopolitica.
L’informazione non è mai neutra. È uno strumento di pressione, un acceleratore di consenso, una leva usata dalla finanza, dalla politica e dall’industria bellica per preparare il terreno.
Ecco come la democrazia viene aggirata non con la censura, ma con l’eccesso di narrazione, non con il silenzio, ma con il rumore controllato. Il cittadino non è escluso dalle decisioni: viene accompagnato dolcemente verso l’unica conclusione possibile.
Le guerre moderne si combattono prima nelle redazioni, poi nei parlamenti, infine sul terreno.
War Street non offre eroi puri né soluzioni semplici. Offre invece una chiave di lettura scomoda: la consapevolezza che l’informazione, quando rinuncia al dubbio e alla verifica, diventa parte integrante del conflitto.
Come la foto che ingannò il mondo nel 1992, come la fialetta del 2003, come le ombre di oggi, il romanzo mostra che l’inganno non è l’eccezione. È il metodo. E proprio questo è l’obiettivo di War Street: non raccontare una guerra, ma insegnare a riconoscerla quando non è ancora stata dichiarata.
Antonio Evangelista
(Analista geopolitico, autore tra i vari libri anche di "Mediterraneo - stesso sangue, stesso fango" e di "WAR Street - L'inganno demokratico", dirigente della Polizia in pensione, esperto per la sicurezza all'estero e di Isis.)
Ringraziamo Antonio Evangelista per avere affidato le sue parole a "Lettera D".
Per maggiori informazioni di seguito alcuni articoli riguardanti Antonio Evangelista e i suoi libri.





Nessun commento:
Posta un commento