Il particolare che racconta il tutto.
C’è una parola che oggi basta da sola a spiegare tutto. È piccola, tecnologica, apparentemente neutra. Drone. Una sillaba che diventa minaccia, una sagoma indistinta che si allarga fino a coprire un intero continente.
L’Europa, ci viene detto, è sotto attacco. Non da eserciti, non da carri armati, ma da qualcosa di più subdolo: droni russi. Il particolare diventa il tutto. Il singolo avvistamento si trasforma in strategia globale. La parola precede i fatti.
1. Il drone: un oggetto minimo per una paura totale
Negli ultimi mesi l’Europa è stata immersa in un clima di allarme continuo. Dichiarazioni, titoli, conferenze descrivono un continente assediato da presunti droni russi. L’ammiraglio Cavo Dragone arriva a sostenere che «un attacco preventivo ibrido contro la Russia potrebbe essere considerato un’azione difensiva». Una frase che, da sola, riassume il meccanismo: la difesa che precede l’attacco, la paura che precede la prova.
Ma cosa resta, se si stringe l’inquadratura?
Lo storico Tarik Cyril Amar parla di guerra cognitiva rivolta non contro un nemico esterno, ma verso gli stessi cittadini europei. E infatti, quando si guarda da vicino, il grande assedio si scompone in dettagli banali:
•Il presunto cyberattacco GPS all’aereo di Ursula von der Leyen non è mai avvenuto.
•Le incursioni nello spazio aereo estone derivano da un accordo del 1994 che riduce lo spazio nazionale a tre miglia.
•L’inchiesta del quotidiano olandese Trouw mostra che in almeno quattordici casi non si trattava affatto di droni: in Belgio erano piccoli aerei o elicotteri, in Danimarca e nel Limburgo stelle, in Norvegia una nave.
Il quadro generale nasce così: un continente spaventato da oggetti che non esistono, ma che funzionano perfettamente come simboli. Come nel vecchio slogan pubblicitario: basta la parola.
2. La guerra ibrida: un nome che copre una direzione precisa
La NATO definisce la guerra ibrida come un intreccio di strumenti militari, economici, informativi ed energetici. Una definizione ampia, elastica, che permette a qualsiasi pressione di rientrare nella categoria.
Ma anche qui il particolare chiarisce il tutto.
Nel 2014 Victoria Nuland liquida l’Unione Europea con una frase rimasta celebre: «You know, fuck EU». Una battuta che diventa chiave di lettura. Da quel momento, il processo si fa visibile:
•il sabotaggio di infrastrutture europee come Nord Stream;
•l’oscuramento selettivo dell’informazione;
•i dazi e le pressioni commerciali statunitensi;
•l’imposizione di forniture energetiche più costose.
Questa è la guerra ibrida reale: non quella subita dall’Europa, ma quella esercitata su di essa. Un conflitto che non bombarda città, ma orienta paure, consensi, decisioni politiche.
3. La finanza: il motore invisibile dietro il rumore delle armi
Per capire chi beneficia di questa tensione permanente basta un salto indietro nel tempo. Un altro particolare, un’altra epoca, lo stesso meccanismo.
Durante la Seconda Guerra Mondiale:
•la disoccupazione negli Stati Uniti crollò da otto milioni a 670.000;
•le grandi corporation triplicarono profitti e contratti;
•IBM passò da 46 a 140 milioni di dollari annui;
•le banche si arricchirono finanziando lo sforzo bellico.
Jacques R. Pauwels lo sintetizza così: «L’incubo degli anni Trenta terminò grazie alla guerra combattuta dall’altro lato dell’oceano».
I nomi sono dettagli, ma raccontano il sistema:
•Prescott Bush e Fritz Thyssen;
•Standard Oil e l’aviazione del Reich;
•DuPont e IG Farben;
•Ford e i camion della Wehrmacht;
•IBM e le macchine Hollerith.
La regola non scritta resta immutata: se un dittatore compra, il capitalismo vende. Come ho scritto in Mediterraneo, stesso sangue stesso fango, una guerra per procura contro la Russia può diventare, di fatto, una guerra contro l’Europa.
4. Tre episodi, un’unica narrazione
Nord Stream. Bucha. Il tentativo di corruzione di un pilota russo. Tre episodi distinti che funzionano come sineddoche narrative: il caso singolo che giustifica l’intera politica.
•Nord Stream: sabotaggio annunciato, attribuito senza prove a Mosca, oggi collegato a militari ucraini.
•Bucha: corpi rimasti per settimane senza decomposizione, senza insetti, senza tracce biologiche, in contrasto con ciò che Robert Fisk descrisse a Sabra e Chatila nel 1982, quando «furono le mosche a farcelo capire» dopo appena ventiquattro ore.
•Il pilota russo: il tentativo di spingerlo a bombardare la Moldavia per creare un pretesto NATOUE.
Tre dettagli che diventano una sola frase: la Russia è il male, l’Europa deve armarsi.
Una frase utile a molti: finanza globale, industria bellica, colossi energetici, think tank, piattaforme digitali, apparati politici. Non ai cittadini. Non alla diplomazia.
Conclusione: la parola che sostituisce la realtà
Il drone non è il problema. È il simbolo.
La guerra non è mai inevitabile: è sempre il progetto di qualcuno. E oggi il particolare — un avvistamento, una foto, una parola — viene usato per raccontare un tutto che conviene a pochi.
L’Europa non è sotto attacco dei droni russi. È sotto attacco di una narrazione che usa la paura come arma, la guerra ibrida come metodo, e la finanza come regia.
Perché, ieri come oggi, la guerra è un mercato. E chi lo governa non indossa uniformi, ma cravatte.
Antonio Evangelista
(Analista geopolitico, autore tra i vari libri anche di "Mediterraneo - stesso sangue, stesso fango" e di "WAR Street - L'inganno demokratico", dirigente della Polizia in pensione, è stato esperto per la sicurezza all'estero e si è occupato di Isis.)
Ringraziamo Antonio Evangelista per avere affidato le sue parole a "Lettera D".

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