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lunedì 30 novembre 2015

"NOVE PERIODICO" DI FEDERICO LI CALZI, LA RECENSIONE DI ENRICO TESTA

Destino individuale e sorte collettiva, vicenda dell’io e sguardo sulla comunità, struttura del soggetto e mutamenti sociali sono spesso, narrativamente, elementi non facilmente conciliabili sortendo in squilibri, sfasature incongrue, predominio dell’uno o dell’altro termine del binomio.
In Nove periodico, il romanzo di Federico Li Calzi, tale rischio ci sembra felicemente scansato sia per il riverberarsi reciproco delle due dimensioni sia per il particolare articolarsi della materia narrativa. Ecco, in estrema sintesi, la ‘storia’ almeno nel suo principio: Mauro, un musicista quarantenne che ha raggiunto un notevole successo fuori dalla Sicilia, ritorna nel suo paese, a Canicattì, animato da più spinte e intenzioni: rivedere i luoghi della giovinezza, allontanarsi dall'atmosfera mondana della capitale da cui ha tratto sì l’affermazione professionale ma anche delusioni e amarezze, incontrare l’antico amico Ntonio, conoscere la vita e la sorte di Luisa, l’amore perduto vent'anni prima.
"Nove Periodico" di Federico Li Calzi, Edizioni Cerrito

In questo percorso au rebours (in cui risuona, almeno a grandi linee, lo schema de La luna e i falò di Pavese), il protagonista ritrova un paese profondamente mutato. Anche Canicattì risente infatti delle grandi trasformazioni intervenute, in Italia e nel mondo, tra fine Novecento e principio del Duemila e solitamente inquadrate dagli studiosi nei termini di società ‘liquida’ o di vita ‘tardo-moderna’: sfilacciarsi delle relazioni, perdita delle identità, assenza di valori durevoli, idolatria del consumo, ricerca del denaro facile (e, al contempo, impoverimento repentino di chi è rimasto legato al passato), egoismo come valore, feticismo delle merci (linguisticamente interessante, nel romanzo, la sfilza di marchionimi che, come signacoli lessicali, individuano il presente o il recente passato). Il resoconto di queste modificazioni che, pur con facile e abusato aggettivo, non possono che definirsi ‘antropologiche’, è come collocato tra due sponde: tra una scena e una parola.
La scena è il paesaggio naturale: l’indimenticabile Sicilia dal profilo immutabile ed eterno con le sue campagne assolate, il riverbero del mare, i terreni ora generosi ora calcinati, le notti dal cielo immenso e stellato (e qui l’autore dimostra, insieme, misura nelle descrizioni e un loro uso ritmico e strutturante ritornando come un refrain musicale da un capo all'altro del libro). La parola è quella dell’amico Ntonio, ora comandante dei Carabinieri, con cui s’intesse un dialogo che alterna l’asprezza all'affetto, la sincerità impietosa al tenero ricordo. Un aspetto, questo, che se, da un lato, isola un dato centrale del libro (il sentimento dell’amicizia come filo che guida alla scoperta di se stessi e della verità degli altri), dall’altro potrebbe pure legittimare – pur con tutte le differenze del caso (là polifonia, qui dialogo; là mito, qui cronaca o storia) e fatte le debite, e quasi obbligatorie, proporzioni – una lettura di Nove periodico come di una sorta di Conversazione in Sicilia svolta ai tempi della ‘surmodernità’, dei suoi disastri e delle sue fragili illusioni.
Ma quello di Vittorini non è l’unico nome della grande letteratura siciliana di cui è possibile trovare qui traccia: se una frase come «il lutto della campagna arsa dal sole» richiama identiche o simili espressioni del Gattopardo, nell'inserto romano della storia di Mauro tralucono, per il disgusto di fondo, certe tonalità dell’Imperio, il romanzo capitolino di De Roberto, mentre l’esempio, narrativo e civile, di Sciascia è presenza ben viva sia negli affondi riflessivi e sociologici sulla sicilianità sia nell'intreccio latamente ‘poliziesco’ o, meglio, malavitoso del finale.
Tutti nomi – sia chiaro – che non debbono suonare come la certificazione di un limite della scrittura di Nove periodico. Anzi. In tempi in cui esordienti e no si caratterizzano, in buona sostanza, come scriventi non-lettori, tutti concentrati sull'ombelicale orbita del proprio sé e della loro presunta ‘ispirazione’ (spesso sorretta solo da intenti commerciali) e distrattamente remoti da ogni rapporto con la tradizione, i segni di queste letture sono i benvenuti. Tanto più se si tiene conto che vengono assimilati e risolti per via stilistica e per impianto strutturale. Un caso notabile della prima è l’istituto dell’elenco o congeries, in cui l’accumulo di dati o di oggetti genera spesso minimi slarghi sintattici per poi riprendere e affastellare, quasi una mimesi del caos, i ‘realia’ raffigurati; ecco un esempio: «C’erano vie di fuga, sottopassaggi, scuderie immense, una piccola chiesa diroccata che dava sul giardino, altre statue più grandi rappresentanti divinità greche ai limiti dei vialetti, dove vegetavano rose selvatiche e siepi abbandonate [ … ]; tronchi bruciati da estati caldissime; scalette, ballatoi dimenticati che prendevano il sole del mattino». D’altra parte, sul piano dell’impaginazione del racconto, emerge soprattutto l’attento alternarsi dei piani temporali. Ne consegue che i singoli capitoli o sezioni si segnalano per marcate anacronie presentando (e così rompendo ogni schematica linearità e movimentando la lettura) momenti distinti della vita del protagonista: ora della lontana infanzia ora del passato prossimo ora del presente del récit.
Lungo questa scansione di fasi diverse, innervata a sua volta dall'intersecarsi di confessione dell’io e di analisi di una comunità in sfacelo, si toccano due effetti: lo sprofondare del lirismo in realismo, la conversione della storia personale del soggetto narrante in invenzione di un simulacro narrativo della realtà (dare segno dell’ambiente e fare, con esso, i conti); e – risultato forse ancora più importante – il tramutarsi del tema della ricerca delle origini (con il suo risvolto linguistico di ampia gamma di toponimi: altra marca lessicale del libro) nel tema della ricerca della giustizia: in un imperativo etico che guida all'accertamento delle ragioni e dei responsabili dell’assassinio di Luisa e, con una messinscena sottile e implacabile, alla loro punizione. Con toni e modalità in cui s’intrecciano fato greco, cadenze veterotestamentarie e risoluzioni catartiche vicine a certi epiloghi dei film di Kurosawa (impossibile, almeno per chi scrive, non ricordare La sfida del samurai o, in originale, Yojimbo). Così, nel sangue ma pure in un accenno di rinnovata serenità, Nove periodico giunge alla sua «verità difficile». Difficile, certo; e non potrebbe essere altrimenti. Perché, si sa, per verità facili in questo mondo non c’è posto.

Enrico Testa
scrittore, poeta, docente di Storia della Lingua Italiana 
presso l'Università di Genova

©DeniseInguanta  


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