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giovedì 23 settembre 2021

"Uno, nessuno e centomila", Pirandello e lo «sguardo dell'umorista»


Inauguriamo oggi una rubrica dedicata al grande Luigi Pirandello. Sei articoli, frutto di studi approfonditi, su sei tra le opere più conosciute del grande scrittore e drammaturgo agrigentino. 

Cominciamo con "Uno, nessuno e centomila".


Luigi Pirandello avviò, con molta probabilità, dal 1909 la stesura dell’ultimo romanzo, “Uno, nessuno e centomila”, che uscirà solo nel 1925-26. Esso ebbe dunque una lunga gestazione. Precisamente fu pubblicato a puntate sulla “Fiera letteraria” dal dicembre 1925 al giugno 1926, con il sottotitolo “Considerazioni di Vitangelo Moscarda, generali sulla vita degli uomini e particolari sulla propria”, in otto libri e fu poi pubblicato in una prima edizione in volume unico nel 1926.

Il figlio Stefano, in arte Stefano Landi, nella lunga presentazione di "Uno, nessuno e centomila" apparsa sulla “Fiera letteraria” scrisse che Pirandello vi lavorava da quindici anni, tenendo il manoscritto a portata di mano per ritornarvi ad intervalli, anche tra una recita e l’altra delle sue commedie. Ciò consente di capire le parole che lo scrittore dettava nel 1922: “Spero che 'Uno, nessuno e centomila' possa uscire prima della fine dell’anno. Avrebbe dovuto essere il proemio della mia produzione teatrale e ne sarà invece quasi un riepilogo”.



Luigi Pirandello 



"Uno, nessuno e centomila" può essere considerato, insieme agli altri sei romanzi, come un nuovo capitolo della creazione pirandelliana, un nuovo campo di sperimentazione rispetto alle novelle. Tale romanzo, come gli altri, segna la fine del romanzo ottocentesco, di cui distrugge l’impalcatura di certezze e l’idea stessa della conoscibilità del reale, instaurando un procedimento aperto, in cui non solo possono accadere le cose più strane e innestarsi le più varie digressioni, ma si può giungere addirittura a problematizzare a tal punto il comportamento dei personaggi, ad opera dell’io narrante, che il romanzo si dissolve come organismo univoco e concluso e diviene un romanzo da farsi e quasi un oggetto di dibattito per i lettori.

Esiste, dunque, in Pirandello una linea di sviluppo e applicazione sempre più scoperta di quello che può essere definito lo «sguardo dell’umorista», concetto base del pensiero dell’autore, che giunge fino alla creazione del romanzo-saggio "Uno, nessuno e centomila".

La vicenda del protagonista di "Uno, nessuno e centomila", Vitangelo Moscarda, prende l’avvio da una banale osservazione della moglie che gli fa notare un’irregolarità del naso che egli non aveva mai notato. Partendo da questa constatazione, dopo essersi posto a riesaminare se stesso e l’idea che gli altri si fanno di lui, l’uomo vede crollare tutte le sue certezze.

L’uno che egli si credeva si sdoppia inizialmente in un estraneo, il se stesso che egli non vede agire e vivere. Il passo successivo è scoprirsi non in compagnia di un estraneo, bensì di centomila, secondo la realtà e l’identità che gli altri gli danno, ciascuno a suo modo, perdendo quindi ogni realtà e identità propria, riducendosi in uno stato come di fusione continua, quasi fluido e malleabile, in ciò facilitato dal suo essere in pieno personaggio fuori di chiave, dotato cioè di un animo disposto a pensare e a sentire anche il contrario di ciò che poco prima pensava e sentiva, cioè a scomporre e a disgregare in sé con assidue e spesso opposte riflessioni ogni formazione mentale e sentimentale.

Nel sovvertire le centomila realtà assunte agli occhi altrui, Vitangelo Moscarda, perseguendo una realtà propria e singola, compie l’atto stravagante, la rinuncia alle sostanze paterne: conseguenza sarà, agli altri, apparire pazzo, e, per sé, riconfermarsi nell’orrore di questo vuoto e di questa solitudine di cui si compone la realtà. L’esito è quindi per il protagonista di "Uno, nessuno e centomila" l’alienazione totale da se stesso e da qualsiasi cosa gli appartenga: donati i propri beni per fondare un ospizio di mendicità, scappatoia per rinunciare alla propria sostanza senza essere interdetto come pazzo, ospizio in cui egli stesso entrerà alla pari degli altri ricoverati, l’approdo è nell’accettarsi «nessuno», unico modo per evadere dalla prigione della forma, dall’orrore di chiudersi in una forma qualunque avvertito nel tentativo di mutare le proprie centomila realtà. È questa, per il personaggio pirandelliano, la sola soluzione alternativa al suicidio, l’identificazione, travalicati i presupposti limiti individuali, nel mare dell’essere: “Nessun nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro tremulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo. Così soltanto io posso vivere ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni. Muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori”.

In "Uno, nessuno e centomila", dunque, è al centro il concetto di realtà ritenuta nell’opinione comune qualcosa di certo e di stabile, mentre invece dipende e si modifica in base all’idea che ciascuno se ne fa, diversa da quella degli altri. Come l’oggettività del reale, così entra in discussione anche il valore che si deve attribuire al linguaggio, visto che le parole sono solo veicoli che vengono riempiti del senso che ciascuno affida loro e che non è identico a quello che gli altri vi mettono. E come risulta un’impresa estremamente ardua comunicare, allo stesso modo naufraga ogni nostro tentativo di conoscerci reciprocamente, poiché tutto ciò che possiamo fare è attribuire in buona fede agli altri l’unica realtà di cui disponiamo: una realtà a modo nostro. E infine il concetto di coscienza, che è come dire il concetto della propria identità: ebbene, nemmeno questa resiste a un’analisi attenta, ciò perché noi siamo in quanto ci trasformiamo, e come ieri eravamo diversi da quelli di oggi, così la forma in cui oggi crediamo di esserci definitivamente fissati è destinata ad essere reimmessa nel flusso perenne della vita.

"Uno, nessuno e centomila" è senza dubbio quello che consegue una specie di primato retorico su tutti i precedenti romanzi. I vari libri in cui esso è articolato, e al loro interno i vari paragrafi, corrispondono ad altrettanti cicli argomentativi, fino ad arrivare alla conclusione finale dell’intero libro, una conclusione di certo autodistruttiva che afferma che «la vita non conclude».

  ©DeniseInguanta








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