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giovedì 1 agosto 2019

"Quattordici spine", lo scrittore Rosario Russo si racconta


"Quattordici spine. La prima indagine dell'ispettore Traversa in Sicilia" è l'ultimo libro del giovane scrittore siciliano Rosario Russo, edito da Algra Editore. 








Questa la trama: Acireale, Sicilia. Un efferato delitto sconvolge l'abulica routine quotidiana: Don Mario Spina, canonico della basilica di San Pietro, viene ritrovato senza vita all'interno della sacrestia, ucciso con decine di colpi d'arma da taglio. Inoltre, da un'antica credenza sono state trafugate le spoglie del maggiore artista locale, Paolo Vasta. L'ispettore di polizia Luigi Traversa, da poco arrivato dal Veneto, si ritrova a indagare su un delitto a tratti inspiegabile. Chi è stato a compiere quell'orrendo crimine? E quale misterioso passato nasconde il poliziotto, giunto all'improvviso in città? Quattordici giorni serviranno a Traversa per risolvere il caso, togliendo una spina alla volta da quel pericoloso fico d'India tutto siciliano che, una volta ripulito, mostrerà all'ispettore la terrificante verità.



Rosario Russo 



Rosario Russo (1986) è siciliano, vive e lavora ad Acireale. Laureato in Lettere e Filosofia e appassionato di Storia, ha conseguito successi in numerosi premi letterari, presentando racconti di vario genere. Nel 2012 ha esordito con "Il Martirio del Bagolaro", romanzo storico ambientato ad Acireale nel 1862. Il poliziesco "Quattordici spine" è il suo secondo romanzo.


Dopo un'attenta lettura del romanzo in questione, abbiamo dialogato con Rosario Russo.


Partiamo dal principio. Come ti sei avvicinato al mondo della scrittura?

Io credo che uno scrittore debba essere considerato innanzitutto un lettore, non esistono scrittori che non leggono, sarebbe inconcepibile, per cui inevitabilmente è stata la grande passione per la letteratura che mi ha spinto a realizzare il “grande passo”. Ritengo tuttavia che abbia giocato un ruolo fondamentale pure un altro mio grande interesse, la Storia; e così, nel 2012 mentre mi trovavo a Roma a seguire un corso di Laurea Magistrale in Storia e Società (Roma Tre), ho deciso che i tempi fossero maturi. L’input lo avevo avuto da un ciclo di lezioni di Storia del cinema, il tema trattato era il Risorgimento e io, spinto dalla curiosità di capire cosa fosse successo durante quegli anni nella mia città (Acireale), ho buttato giù quasi spontaneamente un romanzo storico ambientato nel 1862, "Il Martirio del Bagolaro" (Carthago, 2013). Questa è stata la mia opera prima.



Com’è nata la figura dell’Ispettore Traversa? Quali sono le sue caratteristiche principali? 

L’ispettore Luigi Traversa ha una storia molto particolare e contrariamente a quanto si possa pensare, non è nato con Quattordici spine. Ti racconto la sua genesi: nel 2018 mi ritrovai per puro caso a leggere su internet il bando di un concorso letterario (Premio Nazionale Poeta per caso). Io dopo l’esperienza de Il martirio, non ero riuscito a scrivere più nulla, per cui venivo da circa sei anni di totale inattività, probabilmente causata dalla famigerata sindrome da foglio bianco, un po’ come Marcus Goldman prima di imbattersi nel caso di Harry Quebert (anche se dal canto mio non avevo nessun editore alle calcagna!). Visionare quel bando mi regalò una scossa inaspettata e così ritenni di fare una scommessa con me stesso: quella di riuscire finalmente a rompere il mio maledetto digiuno. Decisi dunque di buttar giù un raccontino giallo incentrato sull’eterno mito della mia città, ovvero la bellissima storia d’amore tra Aci e Galatea. Per farlo però, avevo bisogno di un protagonista “forestiero”, qualcuno che agisse all’interno della trama mosso dallo stupore di chi si ritrova a vedere la Sicilia per la prima volta. Così facendo, sarei riuscito ad evidenziare maggiormente le bellezze della nostro territorio. Senza grossi problemi, creai mentalmente un ispettore originario del Veneto, di Feltre per l’esattezza e fu così che nacque il mio caro Luigi Traversa. Dato che inizialmente ero partito senza grandi pretese, non avevo previsto nessun risvolto futuro per l’ispettore, anche perché come ho già spiegato, trattandosi di un breve racconto, lo avevo creato semplicemente come una sorta di pretesto affinché potessi narrare quella storia. La breve vita letteraria di Traversa si sarebbe esaurita in quelle poche pagine. Poi però a luglio successe una cosa inaspettata. Grazie a quel manoscritto, Gli amanti immortali, vinsi il premio Poeta per caso, sezione racconti inediti, e successivamente mi aggiudicai pure il Premio Nazionale Letterario Acese. L’entusiasmo con il quale l’opera è stata accolta dai membri delle due giurie e dai semplici lettori, a cui avevo inviato il manoscritto, fu per me qualcosa di totalmente imprevisto. Molti mi chiesero altre storie con lo stesso protagonista, spinti dalla curiosità di conoscere qualcosa in più riguardante la vita di Luigi Traversa. Esaltato da quel successo, decisi allora di scrivere Quattordici spine, un romanzo d’ampio respiro che oltre a descrivere un giallo piuttosto particolare, potesse raccontare la storia personale dell’ispettore e i motivi che lo spinsero al trasferimento in Sicilia.
Prima di rispondere alla seconda domanda, vorrei partire da un presupposto. A mio avviso, da parte degli scrittori c’è una pericolosissima tendenza a mettersi al centro delle cose. Ora, quando sei un autore celebre può anche andare bene perché significa che hai tanto da poter scrivere ma nel caso di scrittori poco affermati a cosa serve raccontare di se stessi? All’interno della letteratura di genere, poi, questa tendenza può sfociare in effetti poco gradevoli. Per fartela breve, mi capita spesso durante le mie letture di imbattermi in commissari tutti uguali: particolarmente colti, amanti della letteratura, e questo proprio perché all’interno del protagonista è presente molto dell’autore. Nel caso dei polizieschi siciliani poi, mi ritrovo tantissime volte in commissari che oltre ad essere dei lettori accaniti, soffrono più o meno di svariate fisime, come ad esempio il cambio d’umore quando si imbattono in giornate uggiose, oppure l’amore sviscerato per il mare e le pietanze a base di pesce. Il maestro Camilleri ha aperto un’autostrada verso questo tipo di letteratura ma io credo che l’autore dovrebbe sperimentare nuove forme, se non si vuole ridurre a diventare un epigone di Montalbano. Ecco, io in Quattordici spine ho provato a staccarmi dal protagonista. In Luigi Traversa c’è poco o nulla di me; l’ispettore a differenza mia, detesta il caldo (anche se poi finisce lì, non diventa di certo meteoropatico), il mare, il pesce, ha una passione per la serie tv del commissario Derrick (ne avrò vista sì e no a stento qualche puntata) e soprattutto non ha nessuna cultura letteraria alle spalle, avendo letto al massimo un paio di libri. Da questi suoi aspetti si intuisce che il suo approccio con la Sicilia sarà particolarmente problematico. In conclusione, posso ben dire che la sua caratteristica principale (pur possedendo un forte carattere che lo porta a farsi amare dal suo commissario) sia un’assoluta normalità, cosa che a mio avviso rappresenta un enorme pregio nella letteratura odierna, soprattutto quella di genere. Traversa è semplicemente un bravo sbirro. E poi sono del parere che la cosa più importante in un poliziotto è saper indagare piuttosto che essere un letterato.



Ci sono dei fatti di cronaca specifici che ti hanno influenzato nella scrittura di “Quattordici spine”? 

Beh, io credo che, prima di scrivere un romanzo, devi partire da uno stato dell’anima, da un fotogramma che ti rimane impresso dalla mente, e poi da lì iniziare con la stesura della trama. Nel caso del poliziesco poi, possedere una storia diventa fondamentale, ancor più dei personaggi; senza quella non si va da nessuna parte. In Quattordici spine non mi sono basato su nessun fatto di cronaca preciso, ma piuttosto mi sono divertito a creare una trama dal nulla, che è però è nata dalla lettura di un episodio ben specifico. Un pomeriggio mi ritrovavo a spulciare distrattamente su Wikipedia la pagina riguardante Pietro Paolo Vasta, forse il più celebre artista che abbiamo avuto ad Acireale. Ad un certo punto mi sono imbattuto in un paragrafo dal titolo incredibilmente accattivante, “Il mistero delle spoglie”, dove si parlava di un episodio risalente al 1952, anno in cui si presume di aver trovato le ossa dell’artista all’interno della Basilica di San Pietro. Successivamente i resti furono conservati in un armadio della sacrestia. Ecco, proprio da questo episodio ho immaginato praticamente la scena del primo capitolo di Quattordici spine, quello da cui ebbe tutto inizio: maggio 2018, Acireale, all’interno della basilica di San Pietro, viene rinvenuto il cadavere del canonico don Mario Spina, massacrato con decine di colpi d’arma da taglio, inoltre da un armadio della sacrestia è stato asportato un cofanetto contenente i resti del celebre Paolo Vasta…



C’è uno scrittore in particolare a cui ti ispiri quando scrivi? 

Nel caso di Quattordici spine, è innegabile che per quanto riguarda lo stile letterario mi sono lasciato influenzare da Giancarlo De Cataldo, autore che rientra assolutamente tra i miei preferiti. Basta leggere Romanzo Criminale per accorgersi della sua magnifica prosa diretta, priva di fronzoli o pietismi inutili. Un libro che nonostante le sue 625 pagine, si divora in fretta ed ha un effetto a dir poco magnetico. Del resto è quello che ho provato a fare anche io nel mio piccolo, puntando moltissimo sulla scorrevolezza. Poi è normale che durante la scrittura, riemergano con prepotenza i ricordi delle precedenti letture, e penso soprattutto a Sciascia, il precursore del giallo in Italia (anche se il primo giallista in assoluto fu un altro siciliano, l’ennese Franco Cannarozzo) ma anche a Camilleri, che per un autore siciliano rappresenta senza dubbio uno dei principali punti di riferimento, e allora inserire certi meccanismi diventa una questione quasi automatica, anche se credo che Quattordici spine cerchi di discostarsi in maniera netta, soprattutto col linguaggio, dai romanzi di Camilleri, così come allo stesso tempo reputo che Luigi Traversa abbia poco in comune con Salvo Montalbano. Sul finire del libro comunque ho voluto tributare un piccolo omaggio al maestro di Porto Empedocle, che da quando se n’è andato mi ha lasciato un fortissimo senso di vuoto. Io credo che nessun giallista siciliano riesca a sfuggire al fascino di Camilleri, basti pensare a Cassar Scalia e ai suoi thriller di successo che adoro letteralmente, all’interno dei quali ha creato la figura femminile del vicequestore palermitano Vanina Guarrasi. Ebbene, Vanina, non sapendo assolutamente cucinare, ha un’attempata vicina di casa che si diletta a prepararle i pasti in sua assenza. Vi viene in mente qualcosa?  


Com’è stato accolto, finora, il tuo romanzo dalla critica e dai lettori? 

Con molta modestia, ma anche con grandissimo orgoglio, posso dire che è stato accolto bene, davvero bene. Avverto (chiaramente nel mio piccolo) da parte dei critici ma anche da parte dei lettori un affetto e un entusiasmo verso Luigi Traversa e la sua indagine che stanno andando oltre le mie previsioni. Ma il complimento che ho apprezzato di più in realtà è una domanda: “quando lo scrivi un altro libro con Traversa?” e devo constatare che sono stati in parecchi a farmela. Del resto la serialità nasce proprio da questi presupposti, dal riscontro positivo del lettore nei confronti di un determinato personaggio. Il famoso tubo che passa dal cuore dello scrittore a quello del lettore deve essere il più possibile corto, per mantenere invariati temperatura e densità di questo fluido che dallo scrittore parte e che al lettore deve arrivare.



Quali sono i tre aggettivi con cui definiresti il tuo libro? 

Complesso, coraggioso, semplice.



Qual è il messaggio che vorresti veicolare attraverso il tuo romanzo?

In realtà, trattandosi di un giallo, lo scopo sarebbe principalmente di intrattenimento. Ma la letteratura di genere, tanto vituperata in passato così come tanto celebrata oggi, sta avendo un grande successo proprio perché è diventata col tempo letteratura sociale. Però nel momento in cui si inizia a scrivere un giallo, automaticamente ci si distacca dalla realtà, per cui il lettore potrà sicuramente analizzare la società attuale, ma non perdendo mai di vista il filtro della finzione, se no il tutto si riduce a puro giornalismo d’inchiesta. In Quattordici spine è presente il doppio binario di lettura, i due piani narrativi dell’inchiesta e della finzione, e spetterà al lettore capire qual è la prospettiva che gli interessa maggiormente.    



Nel tuo libro leggiamo: “…c’è chi sostiene che non ci sia un modo migliore di assaggiare un fico d’india per comprendere la Sicilia. Se si vuole assaporare la dolcezza del frutto, bisogna prima eliminare ogni timore di affrontarne le spine. Questo equivale capire cosa significhi vivere in Sicilia.” Cosa significa per te vivere in Sicilia? Quanto ti dà e quanto invece ti toglie questa splendida isola? Pensi che avresti potuto scrivere questo romanzo vivendo in un altro luogo? 

Partiamo dal presupposto che non saprei raccontare luoghi a me sconosciuti. Del resto non puoi nemmeno creare un’ambientazione servendoti esclusivamente di Google Maps. Il lettore moderno, che spesso è pure un viaggiatore, ci sta poco a scoprire il trucco. A me piace definirmi un “acitano di scoglio” divenuto col tempo un “siciliano di scoglio”, per dirla alla Nisticò. Magari un giorno riuscirò finalmente a trasformarmi in un siciliano di mare aperto, ma non sono sicuro di farcela, e forse manco lo desidero. Dato che per motivi di lavoro tendo spesso (e mal volentieri) a spostarmi lontano dalla Sicilia, continuerò a soffrire in silenzio di sicilitudine, sentendomi orgogliosamente insulare, diverso, pagano e fatalista. Del resto, come sosteneva il Principe Salina a Chevalley, “a vent’anni è troppo tardi per partire, la crosta è già fatta”.
Per quanto riguarda l’ultima domanda, ti dico che i miei due romanzi li ho scritti entrambi fuori dalla Sicilia. Il Martirio del Bagolaro durante la mia permanenza a Roma, Quattordici Spine invece l’ho scritto in Valtellina, dato che mi trovavo lì per motivi di lavoro. Curioso, no? Ritengo che questo è avvenuto per una sorta di autoterapia: scrivere è indubbiamente terapeutico, e io, lontano dalla terra in cui sono nato, cercavo in qualche modo di avvicinarmi ad essa con la scrittura. Soltanto così la sentivo vicina.


Un’ultima domanda: c’è qualcosa in particolare che vorresti dire ai lettori per invogliarli a leggere “Quattordici spine”? 

Beh, la critica lo ha definito “un giallo potente, tosto e clamorosamente attuale”, e chi sarei io per affermarne il contrario? Ad ogni modo, se siete alla ricerca di storie originali, avvincenti e di stampo siculo, allora Quattordici spine farà sicuramente al caso vostro!

Grazie Denise per questa bellissima chiacchierata a cuore aperto.





©DeniseInguanta




















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