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giovedì 20 aprile 2017

RENATO SCHEMBRI, SCRITTURA E PSICOTERAPIA A CONFRONTO

Esiste una relazione tra la scrittura e la psicoterapia? È possibile usare la scrittura e la lettura per avere effetti terapeutici concreti su alcuni pazienti?
Queste ed altre domande risuonano di frequente nell'ambito della psicologia.

A rispondere ci ha pensato un esperto: Renato Maria Schembripsicoterapeuta e scrittore, ha pubblicato la raccolta di racconti "Il Parco" e i romanzi "Reiko" e "Stagioni del silenzio".



Essendo uno psicoterapeuta e anche uno scrittore ci spiega se realmente la scrittura può avere un effetto terapeutico e in quali termini ciò avviene?

Renato Schembri
Di fronte alla pagina bianca da scrivere ci possiamo trovare nella fortunata possibilità di trasformare, in modo imprevedibile, qualcosa che è nascosto dentro al nostro cuore e dentro la nostra mente, in qualcosa che può essere visto, pensato e, perché no, presentato agli altri. In presenza di alcune specifiche condizioni, la scrittura può favorire una trasformazione di elementi mentali non pensabili in stati mentali pensabili, con un linguaggio psicologico potremmo dire tra elementi preverbali, presenti nella così detta memoria implicita, in elementi narrabili, trasformati nella così detta memoria esplicita. Tale condizione di pensabilità permette alla persona di essere in contatto con il proprio campo emotivo, con le proprie correnti passionali e, in circostanze ottimali, di avere consapevolezza, consapevolezza del proprio stato interno. Ciò è il prerequisito per la nostra libertà interiore, in assenza della consapevolezza il rischio continuo è quello di essere facili prede delle nostre passioni non riconosciute, negate o rimosse. E' difficile dire quanto e in quali casi nella scrittura questo processo possa essere terapeutico, bisognerebbe approfondire il concetto di terapia, cosa intendiamo per terapeutico.

Anche la lettura può avere un valore terapeutico?

Mi viene da pensare che, come per la scrittura, già la disposizione d'animo di ricerca, di curiosità presenti nella persona che desidera leggere per trovare le parole, per spiegare cosa accade nel suo cuore, per interpretare le proprie azioni e le proprie scelte, già questo crea le condizioni adeguate per migliorare il rapporto con se stessi. Se si aggiunge anche l'auspicabile possibilità di trovare le parole giuste nelle pagine di un libro, di uno scrittore con il quale ci si può identificare, beh... allora il gioco è fatto. Come per la scrittura, anche qui dovrebbe essere approfondito cosa si intende per “terapeutico”.

Lei si occupa di psicoterapia psicoanalitica. Di cosa si tratta in parole semplici? Tale percorso professionale ha reso più agevole la sua attività di scrittore nella fase di elaborazione e caratterizzazione dei personaggi dei suoi libri?

Rispondo prima alla seconda domanda. Ho cominciato la mia formazione a “Lo Spazio Psicoanalitico” di Roma, a Trastevere, trenta anni fa, luogo dove ritorno sempre con emozione. Sì, la psicoanalisi ha influito sulla mia scrittura ma ciò non viene esplicitato nella pagina scritta con riferimenti tecnici o teorici. La mia sfida è quella di fare identificare il lettore con i personaggi e la storia e non di propinargli delle pappardelle intellettuali. Ad influenzarmi nella scrittura, ad ogni modo, non è la psicoanalisi come impianto teorico ma la psicoanalisi come esperienza personale a partire dalla mie analisi personali, prima a Roma e poi a Palermo e, successivamente, le supervisioni. Per quanto riguarda la definizione di psicoanalisi, essa è uno strumento di indagine e di terapia per la cura delle patologie psichiche elaborato da Sigmund Freud che, in modo rivoluzionario per il tempo, introdusse nel campo della scienza concetti come l'inconscio, la rimozione, l'analisi dei sogni. Questa potrebbe essere una definizione per rispondere senza colpo ferire alla sua domanda. Le cose, in realtà, sono più complesse a partire dal fatto che perché ci sia un processo di cura è necessario che queste due persone che chiamiamo paziente e terapeuta vivano all'interno di una relazione, organizzata in un setting, che implica la manifestazione di stati mentali inconsci da ambedue le parti e non da una parte sola, vale a dire sia dalla parte del paziente ma anche da parte del terapeuta ed è a quest'ultimo che spetta il compito, specie nelle fasi iniziali ed in quelle cruciali della terapia, di pensare e comprendere ciò che sta avvenendo nella relazione. Tutto ciò perché l'inconscio si manifesta nella relazione e la sofferenza psicologica può essere curata con la relazione. Anche qui, come per il concetto di “terapia”, andrebbe approfondito cosa si intende per “relazione”, anche in vista del contributo della neuropsicologia e della psicoanalisi relazionale.

Lei è uno dei fondatori di “Spazio rêverie”, un gruppo di psicoterapeuti che da oltre un decennio condivide un percorso di lavoro e ricerca in campo psicodinamico. Quali sono le priorità e gli obiettivi che si prefigge questa associazione?

Devo molto ai miei colleghi di Spazio rêverie. Il nome “Spazio” è un omaggio al mio legame con il Centro romano di psicoanalisi a Trastevere di cui parlavo prima. In ogni lavoro c'è la necessità di un confronto ma per la psicoterapia, per chi esercita questo mestiere è vitale, indispensabile avere un gruppo di riferimento per potere affrontare le difficoltà che si presentano ma soprattutto per potere mantenere la propria capacità di lucidità, di presenza psicologica di fronte alla sofferenza. Spazio rêverie nasce per questo, come gruppo di supervisione clinica di psichiatri e psicologi per poi diventare, con la costituzione dell'associazione, un luogo aperto a tutti per la fruizione di eventi formativi, a disposizione del territorio. In questi anni abbiamo avuto l'onore di ospitare personalità autorevoli del mondo della psicologia ma anche delle letteratura, del buddismo.

Il suo lavoro “Il Parco” è molto vicino al buddismo. Quanto può essere utile per una persona l’avvicinamento alle discipline orientali al fine di raggiungere un equilibrio interiore? È necessario che un individuo abbia già una predisposizione verso questa tipologia di discipline?

Non saprei dirle delle discipline orientali in genere, conosco solo il buddismo. Sì, ne Il Parco il colore delle casette, le citazioni tratte dal Dhammapada o, ancora, il riferimento alle “quattro nobili verità” fanno riferimento al buddismo. Non credo sia indispensabile fare ricorso necessariamente a queste discipline per perseguire un benessere interiore. Penso che si debba fare riferimento, prioritariamente, alle proprie radici spirituali e culturali per avere cura di sé e delle persone a noi vicine. Ho l'esempio giornaliero, nel lavoro che svolgo in ambito istituzionale a partire dal 1991, della generosità e della pazienza usate, nonostante tutto, da operatrici che seguono pazienti gravissimi con autismo o con disabilità intellettiva. Nel mio caso, ho incontrato il buddismo in modo laico tredici anni fa, in seguito ad un evento traumatico che non potevo affrontare con le sole risorse psicologiche e, non essendo credente, mi sono avvicinato alla disciplina spirituale verso la quale coltivavo da tempo un interesse intellettuale. Trovai un riferimento nel centro Muni Gyana di Palermo. Negli ultimi mesi il Comune di Palermo ha affidato al Centro una villa confiscata alla mafia a Pizzo Sella, nella collina sopra Mondello, un posto con un panorama straordinario. Dopo Palermo ho cominciato con i ritiri di meditazione a Pomaia, in Toscana, nel principale centro Buddista italiano, l'Istituto Lama Tzong Khapa. Ancora, alcuni anni dopo ho scoperto, non senza sorpresa e non senza alcuni dubbi, delle applicazioni cliniche della meditazione buddista in psicologia, con la mindfulness, pratica che utilizzo sia in incontri di gruppo sia, in specifiche condizioni, con alcuni pazienti.

In che cosa consiste esattamente?

Molto semplicemente. Mindfulness significa consapevolezza, tradotto dalla parola Sati, nella lingua Pali originaria del Buddha. Come vede, torniamo al tema iniziale di alcune condizioni che possono permettere alla mente di avere un beneficio: la consapevolezza. Alcuni decenni fa un medico statunitense adesso diventato molto famoso, Jon Kabat-Zinn, costruì un protocollo clinico, basato
in buona parte sulle meditazioni e sul pensiero buddista, per affrontare patologie legate allo stress. Da questa esperienze sono state avviate numerose ricerche che hanno validato scientificamente questo metodo fino ad arrivare ad applicarlo per differenti tipi di psicopatologie.

Ha scritto “Stagioni del silenzio”, “Il parco” e “Reiko”. C’è un filo conduttore che accomuna i suo libri?

Una mia amica scrittrice, Beatrice Monroy, ama dire che chi scrive ha una sola cosa da dire nella testa, una sola, che poi racconta in mille modi. I miei tre lavori, oltre ad un inedito ancora non pubblicato, presentano al loro interno dei personaggi che rimangono smarriti di fronte alla banalità del male. Sì, credo questo sia un elemento comune nei romanzi e nei racconti.

Qual è il libro a cui è più affezionato e perché?

Ho lavorato ai romanzi per molti anni, sia per la stesura che per le revisioni, tuttavia il lavoro verso cui ho più simpatia è Il Parco che non è altro che un libricino di racconti, alcuni dei quali estratti dai romanzi stessi. Il Perché? Forse perché vengono trattati, con una narrazione in prima persona e, nelle mie intenzioni, in modo compassionevole, alcuni modi in cui può essere vissuta l'esperienza psicologica della dissociazione. Esperienza che, a vari gradi, caratterizza ogni essere umano.

Quali sono i suoi prossimi progetti sia da psicoterapeuta che da scrittore?

Per la scrittura, aggiungerò un nuovo racconto a Il Parco e proverò a dare alle stampe Canberra, un romanzo inedito su cui ho lavorato per alcuni anni. Come psicoterapeuta, continuare ad avere cura dei pazienti che seguo. 


©DeniseInguanta










                       "Il parco" di Renato Schembri 









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