Esiste una relazione
tra la scrittura e la psicoterapia? È possibile usare la scrittura e la lettura
per avere effetti terapeutici concreti su alcuni pazienti?
A rispondere ci ha pensato un esperto: Renato Maria Schembri,
Essendo uno psicoterapeuta e anche uno scrittore ci spiega se realmente la scrittura può avere un effetto terapeutico e in quali termini ciò avviene?
Renato Schembri |
Di fronte alla
pagina bianca da scrivere ci possiamo trovare nella fortunata possibilità di
trasformare, in modo imprevedibile, qualcosa che è nascosto dentro al nostro
cuore e dentro la nostra mente, in qualcosa che può essere visto, pensato e,
perché no, presentato agli altri. In presenza di alcune specifiche condizioni, la
scrittura può favorire una trasformazione di elementi mentali non pensabili in
stati mentali pensabili, con un linguaggio psicologico potremmo dire tra
elementi preverbali, presenti nella così detta memoria implicita, in elementi
narrabili, trasformati nella così detta memoria esplicita. Tale condizione di pensabilità
permette alla persona di essere in contatto con il proprio campo emotivo, con
le proprie correnti passionali e, in circostanze ottimali, di avere
consapevolezza, consapevolezza del proprio stato interno. Ciò è il prerequisito
per la nostra libertà interiore, in assenza della consapevolezza il rischio
continuo è quello di essere facili prede delle nostre passioni non
riconosciute, negate o rimosse. E' difficile dire quanto e in quali casi nella
scrittura questo processo possa essere terapeutico, bisognerebbe approfondire
il concetto di terapia, cosa intendiamo per terapeutico.
Anche la lettura può avere un valore terapeutico?
Mi viene da pensare che, come per la scrittura, già la
disposizione d'animo di ricerca, di curiosità presenti nella persona che
desidera leggere per trovare le parole, per spiegare cosa accade nel suo cuore,
per interpretare le proprie azioni e le proprie scelte, già questo crea le
condizioni adeguate per migliorare il rapporto con se stessi. Se si aggiunge
anche l'auspicabile possibilità di trovare le parole giuste nelle pagine di un
libro, di uno scrittore con il quale ci si può identificare, beh... allora il
gioco è fatto. Come per la scrittura, anche qui dovrebbe essere approfondito
cosa si intende per “terapeutico”.
Lei si occupa di psicoterapia psicoanalitica. Di cosa si tratta in
parole semplici? Tale percorso professionale ha reso più agevole la sua
attività di scrittore nella fase di elaborazione e caratterizzazione dei personaggi
dei suoi libri?
Rispondo prima alla
seconda domanda. Ho cominciato la mia formazione a “Lo Spazio Psicoanalitico”
di Roma, a Trastevere, trenta anni fa, luogo dove ritorno sempre con emozione.
Sì, la psicoanalisi ha influito sulla mia scrittura ma ciò non viene esplicitato
nella pagina scritta con riferimenti tecnici o teorici. La mia sfida è quella
di fare identificare il lettore con i personaggi e la storia e non di
propinargli delle pappardelle intellettuali. Ad influenzarmi nella scrittura,
ad ogni modo, non è la psicoanalisi come impianto teorico ma la psicoanalisi
come esperienza personale a partire dalla mie analisi personali, prima a Roma e
poi a Palermo e, successivamente, le supervisioni. Per quanto riguarda la
definizione di psicoanalisi, essa è uno strumento di indagine e di terapia per
la cura delle patologie psichiche elaborato da Sigmund Freud che, in modo
rivoluzionario per il tempo, introdusse nel campo della scienza concetti come
l'inconscio, la rimozione, l'analisi dei sogni. Questa potrebbe essere una definizione
per rispondere senza colpo ferire alla sua domanda. Le cose, in realtà, sono
più complesse a partire dal fatto che perché ci sia un processo di cura è
necessario che queste due persone che chiamiamo paziente e terapeuta vivano
all'interno di una relazione, organizzata in un setting, che implica la
manifestazione di stati mentali inconsci da ambedue le parti e non da una parte
sola, vale a dire sia dalla parte del paziente ma anche da parte del terapeuta
ed è a quest'ultimo che spetta il compito, specie nelle fasi iniziali ed in
quelle cruciali della terapia, di pensare e comprendere ciò che sta avvenendo
nella relazione. Tutto ciò perché l'inconscio si manifesta nella relazione e la
sofferenza psicologica può essere curata con la relazione. Anche qui, come per
il concetto di “terapia”, andrebbe approfondito cosa si intende per
“relazione”, anche in vista del contributo della neuropsicologia e della
psicoanalisi relazionale.
Lei è uno dei fondatori di “Spazio rêverie”, un gruppo di psicoterapeuti che
da oltre un decennio condivide un percorso di lavoro e ricerca in campo
psicodinamico. Quali sono le priorità e gli obiettivi che si prefigge questa
associazione?
Devo molto ai miei
colleghi di Spazio rêverie. Il nome “Spazio” è un omaggio al mio legame con il
Centro romano di psicoanalisi a Trastevere di cui parlavo prima. In ogni lavoro
c'è la necessità di un confronto ma per la psicoterapia, per chi esercita
questo mestiere è vitale, indispensabile avere un gruppo di riferimento per
potere affrontare le difficoltà che si presentano ma soprattutto per potere
mantenere la propria capacità di lucidità, di presenza psicologica di fronte
alla sofferenza. Spazio rêverie nasce per questo, come gruppo di supervisione
clinica di psichiatri e psicologi per poi diventare, con la costituzione
dell'associazione, un luogo aperto a tutti per la fruizione di eventi
formativi, a disposizione del territorio. In questi anni abbiamo avuto l'onore
di ospitare personalità autorevoli del mondo della psicologia ma anche delle letteratura,
del buddismo.
Il suo lavoro “Il Parco” è molto vicino al buddismo.
Quanto può essere utile per una persona l’avvicinamento alle discipline
orientali al fine di raggiungere un equilibrio interiore? È necessario che un
individuo abbia già una predisposizione verso questa tipologia di discipline?
Non saprei dirle
delle discipline orientali in genere, conosco solo il buddismo. Sì, ne Il Parco
il colore delle casette, le citazioni tratte dal Dhammapada o, ancora, il
riferimento alle “quattro nobili verità” fanno riferimento al buddismo. Non
credo sia indispensabile fare ricorso necessariamente a queste discipline per
perseguire un benessere interiore. Penso che si debba fare riferimento,
prioritariamente, alle proprie radici spirituali e culturali per avere cura di
sé e delle persone a noi vicine. Ho l'esempio giornaliero, nel lavoro che
svolgo in ambito istituzionale a partire dal 1991, della generosità e della
pazienza usate, nonostante tutto, da operatrici che seguono pazienti gravissimi
con autismo o con disabilità intellettiva. Nel mio caso, ho incontrato il
buddismo in modo laico tredici anni fa, in seguito ad un evento traumatico che
non potevo affrontare con le sole risorse psicologiche e, non essendo credente,
mi sono avvicinato alla disciplina spirituale verso la quale coltivavo da tempo
un interesse intellettuale. Trovai un riferimento nel centro Muni Gyana di
Palermo. Negli ultimi mesi il Comune di Palermo ha affidato al Centro una villa
confiscata alla mafia a Pizzo Sella, nella collina sopra Mondello, un posto con
un panorama straordinario. Dopo Palermo ho cominciato con i ritiri di
meditazione a Pomaia, in Toscana, nel principale centro Buddista italiano,
l'Istituto Lama Tzong Khapa. Ancora, alcuni anni dopo ho scoperto, non senza
sorpresa e non senza alcuni dubbi, delle applicazioni cliniche della
meditazione buddista in psicologia, con la mindfulness, pratica che utilizzo sia
in incontri di gruppo sia, in specifiche condizioni, con alcuni pazienti.
In che cosa consiste esattamente?
Molto semplicemente. Mindfulness significa consapevolezza,
tradotto dalla parola Sati, nella lingua Pali originaria del Buddha. Come vede,
torniamo al tema iniziale di alcune condizioni che possono permettere alla
mente di avere un beneficio: la consapevolezza. Alcuni decenni fa un medico
statunitense adesso diventato molto famoso, Jon Kabat-Zinn, costruì un
protocollo clinico, basato
in buona parte sulle meditazioni e sul pensiero buddista, per
affrontare patologie legate allo stress. Da questa esperienze sono state
avviate numerose ricerche che hanno validato scientificamente questo metodo
fino ad arrivare ad applicarlo per differenti tipi di psicopatologie.
Ha scritto “Stagioni del silenzio”, “Il parco” e “Reiko”. C’è un
filo conduttore che accomuna i suo libri?
Una mia amica scrittrice, Beatrice Monroy, ama dire che chi scrive
ha una sola cosa da dire nella testa, una sola, che poi racconta in mille modi.
I miei tre lavori, oltre ad un inedito ancora non pubblicato, presentano al
loro interno dei personaggi che rimangono smarriti di fronte alla banalità del
male. Sì, credo questo sia un elemento comune nei romanzi e nei racconti.
Qual è il libro a cui è più affezionato e perché?
Ho lavorato ai romanzi per
molti anni, sia per la stesura che per le revisioni, tuttavia il lavoro verso
cui ho più simpatia è Il Parco che non è altro che un libricino di racconti,
alcuni dei quali estratti dai romanzi stessi. Il Perché? Forse perché vengono
trattati, con una narrazione in prima persona e, nelle mie intenzioni, in modo
compassionevole, alcuni modi in cui può essere vissuta l'esperienza psicologica
della dissociazione. Esperienza che, a vari gradi, caratterizza ogni essere
umano.
Quali sono i suoi prossimi progetti sia da psicoterapeuta che da
scrittore?
Per la scrittura,
aggiungerò un nuovo racconto a Il Parco e proverò a dare alle stampe Canberra,
un romanzo inedito su cui ho lavorato per alcuni anni. Come psicoterapeuta, continuare
ad avere cura dei pazienti che seguo.
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